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7decimi di curiosità: Paolo Castelletti e la Terra dei Forti

"Sette domande ai protagonisti del mondo del vino"


Paolo Castelletti ha il cuore che batte forte in Valdadige, esattamente in Terra dei Forti. Il Segretario Generale di Unione Italiana Vini - associazione che costituisce il sistema di rappresentanza generale e unitario del comparto vitivinicolo - ha fatto tanto per la sua terra, in primis nella veste di presidente del Consorzio di Tutela Terra dei Forti che ha ricoperto dal 2002 al 2008. Un lavoro importante il suo, volto alla valorizzazione di un territorio, di vitigni autoctoni con la A maiuscola, di promozione e protezione delle origini.

Paolo Castelletti, primo ospite della nuova rubrica “7decimi di curiosità” è personaggio di riferimento per questo territorio estremamente vocato alla viticoltura. Perito agrario, dal 1985 al 2007 ha ricoperto il ruolo di capo area economica di Coldiretti Verona, nel mentre ha sposato il progetto Terra dei Forti ed ha raggiunto nel 2005 anche il vertice nazionale di Coldiretti per il settore vitivinicolo.


Chi meglio di lui per approfondire ulteriormente il capitolo Terra di Forti analizzato sinora nel blog.




Sig. Castelletti, il suo è un legame indissolubile con il territorio di provenienza. E’ così?


Vivo in Terra dei Forti anche se lavoro in giro per il mondo. Risiedo ad Ossenigo, nel comune di Dolcè, proprio vicino al confine con il Trentino: sono molto legato al posto in cui vivo, motivo per il quale nei primi anni duemila ho deciso di impegnarmi assieme ad un gruppo di persone per la sua valorizzazione. Il territorio è delimitato da un confine politico geografico ma di fatto da un punto di vista culturale, viticolo-enologico non c’è nulla di diverso fra la Chiusa di Ceraino e i territori di Ala e Avio. Non mi sono mai posto il tema del confine politico anche se questo confine ha generato non poche difficoltà nel mettere insieme questo progetto che nasce nel 2000 con il riconoscimento della sottozona Terra dei Forti all’interno della denominazione Valdadige per poi arrivare ad una denominazione autonoma “Terra de Forti” attorno al 2005”.


Impossibile pensare alla Valdadige senza parlare di Enantio e Casetta. Giusto?


In questo territorio abbiamo ereditato un patrimonio unico. In un testo confezionato dall’Istituto Agrario di San Michele all'Adige relativo agli anni ’50 si evince come la fotografia ampelografica dell’epoca fosse molto differente da quella di adesso. Una netta prevalenza di uve a bacca rossa, circa il 55-60% di Enantio e Casetta. Oggi la fotografia è nettamente cambiata. Tutto questo territorio, soprattutto quello trentino, è stato anestetizzato da una logica legata ad un vitigno: il Pinot Grigio, e quindi la redditività immediata, smantellando di fatto le origini. Da altre parti non è stato così.


Ci faccia un esempio.


In Valpolicella ad esempio, dove vengono coltivate prevalentemente due varietà: Corvina e Rondinella. Uve differenti rispetto ai nostri autoctoni, ma che grazie all’appassimento riescono a dare dei vini importanti conosciuti e stimati nel mondo. A partire dagli anni ’80 -’90 in Valpolicella si è assistito a grandi sviluppi, ma mai nessuno si è anche solo immaginato di buttare il patrimonio storico culturale legato a questi due vitigni per cercare altro, come nel caso ad esempio del Pinot Grigio in Vallagarina. Hanno tenuto fede alle loro origini indipendentemente dalla situazione del mercato, impegnandosi a migliorare in ambito vitivinicolo-enologico e riguardo le logiche di mercato. In Valdadige invece nel tempo si sono seguite determinate mode arrivando per ultimo ad un 80-85% di pinot grigio e chardonnay sulle superfici vitate. Il tentativo improvvido anche un po controcorrente che abbiamo intrapreso all’epoca è stato quello, assieme ad un gruppo di persone, di ragionare attorno ad una valorizzazione di un patrimonio tutto nostro (enantio e casetta) unico.


Quali le cause di questo “mancato investimento” sulle peculiarità del territorio da parte delle aziende?

Fonte: Unione Italiana Vini

Le ragioni sono sostanzialmente due.

La prima è quella di una ricerca immediata del guadagno senza avere una prospettiva a lungo termine, che coinvolga ovviamente anche il territorio e la sua economia. Abbiamo assistito ad espianti di enantio, casetta, ma anche di bianchi da sempre in zona come trebbiano e altri. Conversione di produzioni al fine di ottenere maggiore guadagno.


Dall’altra un mondo importante, significativo e

fondamentale per il territorio, quello cooperativo che ha virato su scelte di logica industriale. Se da un lato questo ha aiutato l’agricoltura locale, dall’altra ha contribuito ad una mancata valorizzazione di questi due vitigni ancorati alle origini di queste terre. Sull’altro versante sono rimaste poche aziende private con minore peso specifico per controbilanciare queste logiche industriali.


All’inizio delle nostre azioni abbiamo individuato come esempio l’Alto Adige: le coop in Sudtirol riescono a fare un unicum con il territorio di riferimento. Oltre al vino, al vitigno, all’etichetta, c’è territorio. Il legame col territorio è fondamentale. La Vallagarina e la Valdadige avrebbero la possibilità di proporre un portafoglio di prodotti particolari e unici che porterebbero anche un grande vantaggio in chiave turistica, non solo enologica. Ce lo insegna la Langa: la vendita diretta in quei territori è qualcosa di incredibile. Questo è reso possibile da una rete di accoglienza capillare e da investimenti strategici.


Sull’area veronese qualcosa si sta facendo: penso agli investimenti dell'azienda agricola Roeno di grande prospettiva, con reimpianti e modifiche rispetto al sistema di allevamento, anche Albino Armani sta facendo cose importanti in tal senso.



A proposito di enoturismo. Anche in questo comparto si potrebbe fare un poco di più. Non crede?


Se il territorio è rassicurato da logiche di guadagno non legate alla tradizione è difficile che si sviluppi questo tipo di settore, oggi strategico per il nostro Paese. Questo ambito è fondamentale: non solo garantisce vendite dirette alle aziende, ma crea economie di scala legate ad altri fenomeni territoriali, come la parte agro-alimentare: insaccati, formaggi ed altri tipologie di prodotti. Inoltre si osserva spesso uno sviluppo della parte alberghiera-ristorativa. Tutto questo può arrivare da una rete che funziona.


La ricetta per arrivare a ciò?


La ricetta non esiste. Ma di sicuro gli aspetti fondamentali per sviluppare il territorio in chiave enoturistica sono la messa in rete degli operatori e la formazione continua di tutti i soggetti coinvolti. Noi ci abbiamo provato a suo tempo, ma senza ottenere risultati di un certo rilievo.


E sul consorzio di tutela? Ci vorrebbe una spinta energica per ritrovare entusiasmo?


Guidare un ente come il consorzio è un lavoro che richiede dedizione e visione strategica. Esiste, necessita di essere rivitalizzato. Io me lo auspico. Nutro sempre speranza, anche se realisticamente lo vedo complicato. Le aziende operanti non sono molte. Auspico sempre il meglio per la Terra dei Forti: ho un legame forte e non posso che augurare tutto il bene possibile.

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